lunedì 3 dicembre 2012

Don Mentore ai lettori

Almanacco agrario pel 1890, pp. 145-155


Don Mentore ai lettori

Sicuro; questa volta anch’io, un po’ tirato per la tonaca, e più spinto dalla speranza di fare un po’ di bene ai miei cari popolani, mi son deciso di metter giù quattro linee alla buona in forma di brevi lezioni, raccontini e massime, certissimo d’altra parte che saranno accolte almeno con compatimento dai miei amici lettori. Vedete; non ho pretese a fare il moralista io, e molto meno il predicatore, dinninguardi; non faccio che ripetere in iscritto quello che mille volte ho detto a voce ai miei contadini ogni qualvolta mi trovava tra loro, o ne’ filò d'inverno, o nelle conversazioni sul sagrato vicino alla Chiesa dopo le funzioni delle feste, o lungo le vie e nei poderi durante le mie frequenti visite estive ai loro lavorucci. Contadino per nascita, e popolano per affezione, fin qui per questo buon popolo vissi e lavorai, e se Domine Iddio mi prolungherà la vita, lavorerò di lena anco in avvenire, sicuro con ciò di compire quel duplice scopo a cui deve tendere ogni buon trentino, ch’è, Dio e patria. Eccomi quindi con voi.

Ogni buon principio da Dio.

Eh! sì. Facciamo pure, lavoriamo, sudiamo; se le nostre fatture, i nostri lavori, i nostri sudori non sono accompagnati dalla benedizione del supremo Creatore e Reggitore del cielo e della terra, in vanum laboraverunt, si si affatica proprio indarno. Quindi per primo avviso, vi raccomando, amici miei dilettissimi, di non dimenticarvi mai che sopra di noi evvi Uno da cui non solo dobbiamo sempre dipendere, ma che verso Lui abbiamo dei doveri gravissimi, perenni e quotidiani. Lo so bene, che tutto il santo giorno voi dovete sgobbare, e sudare per arrivare vivi a S. Silvestro, e che quindi non avete molto tempo per occuparvi di Dio e dell'anima; molto non lo pretendo io, perché non lo vuole neppure Iddio. Ma, che la mattina e la sera facciate i vostri ringraziamenti e le vostre offerte al nostro buon Dio, recitando quelle brevissime orazioni che vi insegnò fin da piccini la vostra mamma; questo si sta bene ed è anzi di stretto dovere di tutti voi, e voi lo farete sempre volentieri e colla ferma persuasione che senza di ciò non avrete mai e poi mai prosperi i vostri affari. Un po’ di quella viva fede dei nostri nonni e vedrete come Dio ci benedirà. 
Le Feste e le Domeniche poi, sapete già perchè furono istituite. Abbiamo bisogno di riposo di quando in quando; ci è utile un lieto sollievo; e questo riposo e sollievo voi lo dovete godere nelle feste, dopo di averle santificate coll'ascoltar bene la S. Messa, ed udita con attenzione la divina parola, che vi viene spiegata con frequenza dal nostro clero! Oh! come è giocondo lo spettacolo che ci offrono i nostri villaggi nel dopo pranzo de’ di festivi. Là attorno alla chiesa, sulla pubblica piazza e nelle vie principali delle ville, gruppi di ragazzi, di giovani, di vecchi, che discorrono a vicenda delle loro cosuccie, mentre altri occupati nei giuochi della palla, del pallone, delle bocchie occupano tutta un intera popolazione in onesti divertimenti, in soavi ricreazioni! Voi continuate pure questi cari giuochi de' nostri padri, perché questi dopo aver adempiti i vostri doveri con Dio, vi ajuteranno a passar bene le feste del Signore; ma guardatevi da altri giuochi, ove è facile abusare, come avviene quà e colà colla frequenza delle bettole e delle bische, nelle quali anima e corpo soffrono assai. Lungi da voi ogni lavoro non necessario in questi dì, perché colui che lavora alle Domeniche e poi si da a fare le Lunediane, state certi se non è oggi, sarà domani, che dovrar pentirsi e patir fame. Dunque Dio pria di tutto e sopra tutto e poi ogni cosa riuscirà ottimamente. In caso contrario ci avvisa il poeta che

"...svanisce il senno e l'arte
Quando amico il ciel non è"

La scuola rurale.

Renzo del Manzoni, ammaestrato dalla propria triste esperienza, venne alla conclusione "che i suoi figli imparassero tutti a leggere, e scrivere, dicendo, che, giacché la c'era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro". E così voi pure, miei amici, che conoscete non essere una birberia, ma una dote di moralità e civiltà il saper leggere e scrivere, anzi facile mezzo esser questo di benessere anche materiale, procurerete con tutte le premure, che i figli vostri tutti frequentino lodevolmente le scuole del vostro paese per essere in questo educati ed istruiti. So bene, che, grazie a Dio, quasi tutti lo fate con zelo e volentieri, ma vorrei che lo faceste proprio tutti senza eccezione. Sta male, vedete, in un paese bene educato ed istruito come è il nostro Trentino, incontrarsi qualche volta in tali che non sanno rilevare una parola neppure stampata, e fanno quelle croci a sghimbescio invece del proprio nome e cognome. Si dice, che i soldati prussiani seppero essere valorosi e vittoriosi nel 1870, perché sapevano leggere e scrivere; ed io vi posso assicurare, che i nostri interessi andranno molto meglio, se noi pure tutti avremo simile istruzione. Nella scuola, oltre l'imparare a leggere e scrivere e far di conti, si riceve l'educazione religiosa e morale, e questo è il più. Se voi private di questa educazione i vostri figli, loro preparate di certo un triste avvenire. Vedete dunque quale grave responsabilità, o genitori, sta sopra la vostra coscienza. Voi direte, che anche fra gli istruiti ed i letterati ci sono de’ cattivi e delle birbe, e che se ne abusano delle istruzioni avute per gabbare il prossimo; ve lo concedo, ma sono eccezioni; e poi vi posso dire che è raro quel birbone, il quale avendo avuto buona educazione da principio, finisca poi malamente, mentre se quella manca, rari sono i ravvedimenti di poi. Senza buoni fondamenti non soltanto non si edifica, ma non si può neppure rifabbricare la casa. Dunque tenete in buon conto la vostra scuola rurale, non vi rincrescano quelle spese modeste, che dovete incontrare pel salario de’ maestri, è anzi questo un capitale che vi frutta mille per uno; zelate la frequenza alla stessa per parte de’vostri figli, e ne conseguirete vantaggi per voi e pe' vostri cari, benedizione da Dio e riconoscenza dalla patria.

La nostra casa.

Quali e quante sacre memorie ci fa risovvenire la casa nostra; quel caro tetto che ci vide nascere, e sotto il quale passammo gli anni innocenti di nostra vita! Quando fatti grandicelli, si dovette allontanarsi dalla patria; oh quante lagrime la prima volta nell'abbandonare la patria, i nostri monti, il nostro paesello e più la casa paterna! Come fu triste lo svegliarsi la prima volta sotto un tetto, che non era il nostro! Come dì e notte il pensiero volava, volava, e sempre e solamente si fermava entro la porta ben nota della nostra casa! E quando finalmente c'era dato di ritornarvi; oh come battea il cuore all'appressarsi al paese dei nostri genitori e nostro; come sussultava all'avvicinarsi al casolare della mamma; per l’ansia tremava il piede nell’ascendere quelle scale, il toccare quel saliscendi! Finalmente la gioia era al colmo nel gettarci in braccio ai nostri cari e riposarci sicuri sul nostro guanciale! E donde tutto questo, o cari? Ecco il gran perché. Perché ivi il nostro cuore imparò ad amare e la nostra mente a conoscere. Le prime parole, che ci fecero uscire articolate dalle nostre labbra, assieme a quelle di papà e mamma, furono Dio, Gesù, Maria, la mamma bella. I primi baci, che fecero rosseggiare le nostre guancie grassoccie, furono quelli dei nostri amati genitori, mentre noi vi corrispondevamo con carezze affettuose. Le prime nozioni religiose e civili le ebbimo da loro, sempre nostri indimenticabili maestri e catechisti; il focolare paterno era la scuola, le ginocchia materne le panche, i cari fratelli, le dolci sorelle i condiscepoli. O soavi ricordi, o santi amori; o rimembranze imperiture della nostra casa!! Genitori tutti, continuate a rendere sempre amata a' figli vostri la casa paterna; serbate le tradizioni avite, e colla vostra condotta esemplare, morigerata siate ognora il sorriso dei domestici focolari, ove germogliano questi teneri rampolli delle generazioni future, le quali, volere o no, saranno un dì come furono educate dalle paterne cure. E voi, o figli, amate sempre la casa di vostro padre, di vostra madre; sia dessa sempre il vostro rifugio prediletto. Genitori esemplari, figli docili ed obbedienti, ecco dei felici abitatori di questo piccolo paradiso terrestre che si chiama la nostra casa. Ma al contrario, quanto sta male, come fa pensare poco bene e molto temere, se questo nido di pace è sturbato per mancanza di esemplarità ne’ genitori o di ubbidienza ed amore ne' figli! Guai in allora! Essa ben presto diventa un covo triste e fatale, ove il vizio, come lento e mortifero veleno, passa a rovinare generazioni intiere. Guai a quella casa, entro la quale la voce raoca del padre e quella stizzosa della madre aggiunge imprecazioni, parolaccie e bestemmie alle correzioni de’ figliuoli, ed ove le risposte arroganti, e le sfuriate dìspettose de’ figli fanno eco ai duri modi de' genitori! Oh non si potrà amar più quel luogo che ci accuserà di colpe precoci, e che ci rammenterà tristi le prime scene della vita!... Ma non sono cosi, e non lo saranno le nostre case, o miei buoni amici; e quindi saranno esse quei luoghi prediletti sempre, che nell'abbandonarli ci faran piangere, nel rivederli ci faran gioire, ed ove avemmo la sorte di spirare le prime aure vitali, avremo quella di chiudere gli occhi in pace per aprirli in paradiso.


Checchino il Iitigante.


Checchino figlio primogenito di agiata famiglia di contadini sortiva dalla natura un' indole altezzosa anzi che no. I genitori non badarono più che tanto alla superbietta del figlio, anzi quasi quasi ne gioivano come di qualità brillante del primo frutto del loro amore. Crebbe il ragazzo e la boria aumentò cogli anni assai. Passata fortunatamente la coscrizione senza urtare nel doppio scoglio del militare o del bersagliere, il giovine pensò di più alla morosa che da tempo vagheggiava e contro la volontà dei genitori impalmò una ragazza di solo suo capriccio. Con ciò la pace in casa ne fu turbata assai e dopo due mesi di alterchi fra padre e figlio, tra nuora e suocera, Checchino colla sua metà poco dolce dovette sloggiare dalla casa paterna e cercare fuori di quella un nido qualunque. Intanto il figlio pretese campi e denari dal padre, e non contento dell'offerta fattagli, intentò brighe e liti allo stesso, che durarono anni ed anni. Vistasi crescere la famiglia, Checchino si mise ad arraffare di quà e di là e non sempre lecitamente, pur di vedersi fornito con che campare lui e famiglia. Appassionato pelle quistioni, se non n'aveva di proprie, ne prendeva da altri, e ad ogni costo la ragione voleala sempre per se. Venuti a mancare i genitori, e divisa la sostanza tra numerosi eredi, Checchino ebbe mille pretesti per brigare cogli altri fratelli, mai contento di quello che gli spettava per legge. Alle minacce del fratello maggiore, gli altri cedettero di più di quello che gli si doveva, e Checchino ancora ingiustamente aumentava la sua sostanza famigliare. Ma eccone i vantaggi finali. Ha il male nel sangue il poveretto. I consigli de’ più saggi egli disprezza: voi lo vedete spesso spesso gironzolare per Preture ed Uffici Giudiziali, correre di quà e di là per consulti da legali ed avvocati. Non ha salute di ferro, e le notti insonni, i calcoli e le macchinazioni lo fanno macilente, ed invecchia a vista d'occhio. Era il dì 10 Febbraio 1871. Un’ udienza interessante lo attende in Giudizio. Cadea la neve a fitte volate, un vento freddo freddo gelava le ossa, ma Checchino non manca all’udienza, è pratico degli effetti della contumacia. Ritorna a casa sfinito e fracassato nelle ossa; va a letto senza prender cibo, ma dopo il primo breve sonno si sveglia con una forte puntura al lato destro. Si chiama il dottore, il quale fatta una diagnosi in fretta come il suo solito, conchiude che il malore è roba da poco; prescrive sudoriferi, e nega il salasso e le sanguisughe desiderate dall’ammalato... e Checchino al quarto giorno non diede più udienza e finiva la lite col male e con tutti; a stento si ebbe i conforti religiosi, e moriva tra gli urli ed i singhiozzi della moglie e de' teneri figli. - Fatto l'inventario della sostanza abbastanza vistosa, saltaron fuori numerosi listini di debiti ancora vivi di avvocati ed altri, cosicché il depurato si limitava a poche centinaia di fiorini. Tra le carte di casa si trovò una noterella, la quale nella sua piccolezza portava queste cifre troppo parlanti:
Nell'anno 1850 spesi per liti, bolli ed avvocati fior.70.
    -1851                                                               55.60
    -1852                                                             104.70
    -1853-54                                                        111.05
    -1855                                                             207.20
    -1856-57                                                        309.50
    -1858-61                                                        790.10
    -1862-70                                                      1243.87

Fattane la somma dal perito giudiziale risultarono 2895.05 fiorini consumati malamente in liti e quistioni e ciò senza contare le giornate perdute ed i viaggi faticosi che gli anticiparono la morte.
I fratelli di Checchino, i quali cedettero della propria sostanza piuttosto che litigare, ora vivono modestamente bensì, ma senza debiti; i superstiti di Checchino il litigante passarono a spalle della Congregazione di Carità. Che ne dite, lettori? Non aveva ragione mio nonno, quando diceva che piuttosto che litigare, è meglio lasciarci la vanezza?

Massima.
Stima se stesso chi stima gli altri.

Carlo il giuocatore.

Unico figlio di ricca famiglia, Carlo ai 15 anni era il ragazzo più snello e più bravo al giuoco della palla, unico divertimento pubblico che si avea nel suo paesello. Avesse pure continuato in questo esercizio ginnastica per eccellenza e sano assai, quando non passa i limiti della temperanza. Ma no, fatalmente, alcuni compagnoni dal giuoco della palla lo addestrano a quello della mòra e poi del tresette. Le brillanti partite di palla che il popolo si gustava sulla piazza vicina alla chiesa dopo le funzioni vespertine, non sono più, perché manca Carlo, il quale era l’anima di quel trattenimento. Voi lo trovate invece nel basso tugurio della vicina bettola che si sgola in urla sguaiate e che percuote colle pugna la tavola ad ogni punto che vince. Non contento delle brevi ore del giorno festivo, vi si ferma qualche ora dei dì feriali, e prolunga il giuoco fino ad ora tarda di notte biscando coi soliti scapestrati del paese. Ebbero un bel gridare il papà e la mamma, che si moderasse, che lasciasse quelle compagnie, erano parole al vento. Carlo toccava già i 25 anni, ed i genitori desideravano che il figlio si accompagnasse, e per vedersi rallegrare gli ultimi giorni della vecchiaia con qualche nipotino sulle ginocchia, e perché speravano con ciò un po’ di giudizio nel figlio. Ma Carlo non ci pensava; se si trattava di sposare un nuovo mazzo di carte, c'era a tutte le ore, ma per legarsi in matrimonio ed avere una terza bocca che griderebbe contro di lui, era cosa che non voleva addirittura... Finalmente per far tacere le continue e moleste importunità de' genitori, spinto anche dal consiglio degli amici, i quali poi gli soggiungevano che anche ammogliato resterebbe alla fin fine lui sempre il padrone, trovata la donna che lo prendesse per marito, in poche settimane il contratto fu conchiuso e celebrato il matrimonio. Se questo grande Sacramento per chi lo riceve per i fini santi pei quali è stato istituito, riesce di efficace rimedio anche a tanti cervelli balzani, per Carlo non fece nè caldo nè freddo, anzi, dirò, peggiore la sua passione pel giuoco. Pria del matrimonio rare volte si fermava oltre la mezzanotte alla bisca, e entrato in casa si gettava tosto sotto le coltri e senza udir rampogne da chicchessia si addormentava della grossa fino ch'era giorno. Ma ora, appena sbagliava orario, c'era la moglie buon testimonio, e questa, già ve lo immaginate, non lo lasciava addormentare senza rampogne, brontolii e lunghe prediche. Ed il frutto? Carlo più volte si dimenticava di andare a dormire, prolungava il giuoco fino all’alba, e dalla bettola passava diritto al lavoro. Ma buon Dio! Come lavorasse di giorno chi per tutta la notte ebbe scaldate le panche d'un' osteria, è facile immaginarlo. Anzi al giuoco aggiungendovi la bibita de' liquori, Carlo si logorava la salute ad occhi veggenti. I suoi genitori senza speranza di veder Carlo ravveduto, di crepacuore passarono a miglior vita; la moglie isteriliva dalla passione; era una famiglia rovinata in una parola. Una sera di luglio del 188... Carlo era assiso al solito tavolo della bettola, ma il giuoco non andava bene a lui. Due occhi rossi rossi, le labbra livido palesavano la rabbia contro quelle luride cartaccie congiurate alla sua rovina. Spera un' ultima rivincita, aumenta la quota del giuoco, ma per un punto perde grossa somma che va ad aumentare il grave debito presso l'ostiere. S‘alza furioso e senza dar la buona notte ad alcuno si avvia alla volta di casa. La notte è oscura, oscura; a stento si può vedere un po’ di strada; minaccia un temporale. A tentoni, e più per pratica che altro, Carlo ha già fatto mezza la strada che lo divide da casa sua. Un lampo lo accieca all'improvviso, muove il passo e.... un grido acuto e poi silenzio profondo. I compagni uscirono in quel momento dall'osteria; sentono quel grido d’aiuto... preso un lume corrono donde partì quel grido e trovano il povero Carlo caduto da un alto muro immerso nel proprio sangue. È ancor vivo, ma in uno stato che pare disperato. Lo portano a casa; la moglie vien meno a quello spettacolo, ed è assistita dalle donne del vicinato ch'è tutto sossopra. Corre il Curato del luogo, è chiamato il dottore. Questi non sa a chi prestar più pronto aiuto, se al marito fracassato o alla moglie svenuta. Lava le ferite, unisce le carni lacere con punteggiature, e brontola ripetutamente che il caso è serio; alla moglie somministra decotti di camomilla, acqua di melissa, ma non sa raccapezzarsi; è una desolazione.... Siamo al quinto giorno dopo questa notte fatale. Le campane suonano a lugubri rintocchi l'ora del funerale... Un lungo corteo si vede sfilare dal paese alla Chiesa e da questa al cimitero. Son due le bare che si calano in una stessa fossa! Il Curato, compiuta la mesta cerimonia, fa cenno di parlare. Un silenzio veramente sepolcrale regna attorno.... Figli! prorompe tra singhiozzi quel venerando sacerdote, figli, siete ora persuasi di quello che più e più volte v’ho predicato? Ecco quà, quello che 
si guadagna dal giuoco e dalla bettola! Appena un anno fa qui abbiam sepolti i genitori morti di crepacuore per un figlio osteriante e giuocatore, ora voi vedete quello stesso figlio seguire i genitori assieme alla moglie; lei morta di spavento, lui fracassato per castigo di Dio! Una famiglia tra le prime del paese tutta spenta vittima del giuoco! Il meschino, causa di tanta disgrazia, ebbe per divina misericordia per poche ore sana la favella e la mente; fu riconciliato con Dio, ebbe gli ultimi conforti religiosi, il suo testamento furono queste parole: Signor Curato, gli domando perdono di tanti dispiaceri recati ancora a lui pella mia mala condotta, chiedo perdono a tutti, e lo prego di dire dal pulpito pubblicamente che si guardino tutti dal fuggire il vizio del giuoco e la bettola, e la mia triste fine sia di esempio salutare... Pochi mesi dopo gli eredi adivano l’eredità del defunto, ma eredità di debiti; l’oste spazzava via tutto.

Una mesta lapide ricorda ancora ai posteri la triste storia colla seguente epigrafe:


QUÌ GIACE
CARLO IL GIUOCATORE
CHE
ANTECIPATA LA MORTE AI GENITORI ED ALLA MOGLIE
PER CREPACUORE
MORÌ FRACASSATO PER CASTIGO DI DIO.
GIUOCÒ TUTTO L'AVER SUO
E FORSE IL PARADISO.


Massima.


La tentazione non ha mai tanta forza contro di noi come quando ci trova oziosi.

DON MENTORE


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